Chi si recasse a Venezia con l’intento di scoprire i nuovi talenti dell’arte contemporanea consacrati nei padiglioni della biennale, potrebbe casualmente, o forse no, imbattersi nel piccolo museo della Collezione Peggy Guggenheim.
Piccolo si fa per dire. Al suo interno sono custoditi capolavori che hanno segnato la storia dell’arte del XX secolo, dal cubismo fino alle correnti del dopoguerra in Europa e in America. Fra opere di autori notissimi quali Picasso, Kandinky, Mondrian, ve ne sono alcune di artisti meno conosciuti dal grande pubblico ma di straordinaria importanza per l’influenza che hanno avuto sulle generazioni successive. Uno di questi è Joseph Cornell. La bellezza dei suoi lavori sta in quei mondi lontanissimi che si incontrano negli assemblaggi assurdi e poetici delle sue scatole.
Americano di nascita, ma olandese di origine, Cornell lavorò sin da giovanissimo per mantenere la propria famiglia. Il suo lavoro di venditore porta a porta nel quartiere manifatturiero di lower Manhattan gli consentì di coltivare la sua passione di collezionista. Dischi, libri, cimeli teatrali, fotografie, copie di vecchi film, costituiscono il suo prezioso bottino accumulato negli anni girando a piedi la città e frequentando negozi di libri usati e robivecchi, fra un appuntamento e l’altro di lavoro. Il poeta Charles Simic, che negli stessi anni percorreva i luoghi di Cornell, immagina in un sogno di incrociare quell’uomo riservato e geniale battendo la Quarantaduesima Strada o di scorgere qualche sua opera nelle gallerie d’arte che l’artista amava frequentare.
Proprio in una di quelle gallerie avvenne il cortocircuito. Un giorno alla “Julian Levy Gallery” Cornell vede disimballare oggetti e dipinti surrealisti provenienti dalla Francia. E’ una rivelazione, l’inizio di un percorso creativo che durerà un’intera esistenza. Nel seminterrato della propria abitazione in Utopia Parkway l’artista darà vita ad un’opera magica e teatrale.
Cornell comincia a costruire scatole, le realizza su misura perché possano contenere quegli oggetti stravaganti, religiosamente raccolti nel girovagare di anni. Prendono vita così i suoi assemblaggi, costruzioni oniriche che racchiudono improbabili mondi.
Souvenirs immaginari, pappagalli, carillon, carte geografiche, costellazioni, tutto si combina giocosamente nel “tentativo disperato di dare forma alle ossessioni” come dichiarerà lo stesso artista in un appunto del suo diario. Un lavoro quello di Cornell coltivato nella solitudine del proprio laboratorio, ma che avrà una forte risonanza nel mondo dell’arte, suscitando l’interesse di molti artisti e scrittori francesi in esilio a New York.
Del resto le sue fantasticherie ancora oggi continuano ad entusiasmare pubblico e critica e ad ispirare giovani artisti. Ne è un esempio l’opera del canadese Marcel Dzama, classe 1974, brillante esponente del movimento New Folk.
Questa corrente artistica americana nata a New York nei primi anni del duemila, si nutre di cultura alta e bassa restituendo un mondo dai toni fiabeschi e naïve.
Marcel Dzama attinge ampiamente a questo scenario culturale. Tra le sue opere di maggiore interesse figurano spettacolari “diorami”. Si tratta di modelli tridimensionali di carattere teatrale in cui gruppi di figure, assemblate su piani differenti, danno vita a scene grottesche. Queste rappresentazioni ricordano molto da vicino le scatole magiche di Cornell. In esse convivono personaggi in una dimensione reale e fantastica che mescola familiare e soprannaturale, ricreando atmosfere oniriche di cui sfugge il senso.
Dzama ripercorre, dunque, i passi di Cornell e lo fa con un linguaggio creativo contemporaneo, più lontano dalle avanguardie storiche del surrealismo e ricco di contaminazioni della cultura popolare. Tuttavia del suo predecessore conserva l’attitudine a immaginare mondi magici e improbabili dove il caso gioca la sua parte e l’invenzione diventa arte.