Tempo fà, nel bel mezzo di una puntata del programma televisivo Passepartout di Philippe Daverio, mi sono imbattuto in un’intervista che mi ha lasciato letteralmente senza parole. Una di quelle piacevoli rivelazioni che ti fanno scoprire qualcosa di bello e avvincente, una di quelle intuizioni artistiche che ti stupiscono per la loro semplice genialità. Vincent Berg, questo il nome del fotografo free-lance classe ’59 nato nel Congo belga, autore di un ciclo di immagini di grande effetto dove l’incipit dell’idea è costituito da una banale raccolta di materiali apparentemente inutili ed il risultato finale si palesa in fotografie quantomeno sconcertanti per la loro inquietante bellezza.
Sono rimasto basito nel visionare per la prima volta questa serie intitolata “De Simmetria Cerebri”: spettacolari mostruosità dense di angoscia, di inquietudine, di atmosfere dai richiami mitologici e fantastici. I mostri di Berg, come ormai vengono chiamati, stabiliscono una connessione diretta con il nostro inconscio dal quale fanno riemergere incubi materiali dalle forme animali e antropomorfe. Visioni ancestrali non insite nelle cose bensì prodotte dalle cose stesse, nel preciso istante in cui stabiliscono un contatto con la nostra percezione visiva.
Ma come nascono queste suggestioni così destabilizzanti?
Un processo creativo che ha dell’incredibile per la semplicità dell’intuizione di partenza cui fa da contraltare la raffinata complessità formale dell’opera finita che, sebbene si concretizzi in una stampa fotografica, si sviluppa lambendo discipline come la scultura e il design.
Lo spunto iniziale si basa sulla ricerca di materiali di recupero lungo la spiaggia di lungolago frequentata dall’autore, in Lombardia: Berg raccoglie pazientemente alberi, tronchi, rami, radici, giunchi ma anche oggetti di altro tipo. Qualunque manufatto, naturale o artificiale, può fare al caso suo, se suscita nell’artista un’immediata ispirazione per un suo possibile riutilizzo. Berg si lascia suggestionare liberamente da forme, colori e tessiture trovati sulla sabbia in un’azione materialmente ludica ma concettualmente assorta. In questa fase, come ammette lui stesso, gli capita di essere già soggiogato da visioni evocative che, sebbene ancora allo stato embrionale, gli suggeriscono una successiva elaborazione. Qui nasce la scintilla di un’idea.
Ma è nella fase seguente che, invece, entra in gioco la perizia tecnica e lo straordinario senso estetico dell’artista che, raccolti i reperti, avvia un lungo, meticoloso lavoro di assemblaggio in studio che è oggetto di continue ricalibrazioni.
Berg utilizza il grande pavimento del suo atelièr per ricomporre i materiali secondo un processo compositivo in itinere fatto di continui correttivi: incastri, sovrapposizioni, accostamenti assecondano un’idea di immagine finale che Berg lascia maturare sotto le proprie mani e davanti ai suoi occhi, sempre nell’ottica del passaggio conclusivo, quello dagli effetti dirompenti.
Quando la struttura ha assunto una conformazione definitiva, Berg trasforma la scultura in immagine. Grazie ad una ripresa dall’alto fotografa la composizione creata sul pavimento acquisendo, così, un file ad altissima risoluzione che sul monitor del pc verrà sottoposto alla magia terminale: un ribaltamento speculare della foto, semplice o plurimo, genera una cosa nuova, non più reale, dove il “doppio” ricostruisce un’unità primigenia fino a quel momento invisibile, se non nell’immaginazione dell’artista.
Appaiono dal nulla metamorfismi, deformità, figure dalle sembianze umane o animali, oppure geometrismi perfetti, frattali ipnotici che sembrano animati da una coscienza interiore. Forme indistinte, eppure riconoscibili, lasciano intuire fauci terribili, zanne, stranianti organi di senso, soprattutto occhi: magnetici e inquietanti, ci lasciano pietrificati, come colpiti dallo sguardo agghiacciante di una orrenda gorgone. Anche quando la ludica sperimentazione ottica deriva verso la geometria pura emerge, sempre e comunque, una strana sensazione di minacciosa vitalità: organismi amebici sembrano vibrare al nostro cospetto; mi torna alla memoria quell’attimo di terrore sospeso, nello splendido film Alien di Ridley Scott, in cui l’equipaggio del Nostromo, in perlustrazione sul pianeta alieno, scorge quel campo di piante spaventose, presagio di un orrore immanente custodito al loro interno ed in procinto di seminare il panico più incontrollato.
Immagini suggestive, ipnotiche e di alto valore simbolico, dove alla poesia del recupero dei materiali poveri, fa da contrappunto l’elegante complessità delle composizioni fotografiche. I mostri di Berg sono strutturalmente incompiuti e quindi perfetti nella loro inafferrabilità, le simmetrie generate dai ribaltamenti di immagine evocano una unità formale che non si concretizza mai in un disegno compiuto e riconoscibile. Il mostro si lascia cogliere, immobile, dal nostro sguardo ma si divincola totalmente dal nostro tentativo di elaborarlo in modo razionale, facendo vibrare la nostra emotività più profonda e indifesa. Tutto questo li rende inquietanti, sfuggenti e più vivi che mai.
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Per rivedere l’intervista di Philippe Daverio questo è il link: