I primi anni 90 furono per l’Italia un crocevia di fondamentale importanza. Le indagini di tangentopoli portarono in superficie una corruzione dilagante scaturita dai rapporti sempre più stretti tra mondo politico e finanziario, quello che tutti sapevano e di cui nessuno parlava ..nella penosa consuetudine del malaffare. Una catarsi sociale tra avvisi di garanzia, suicidi e lanci di monetine.
La partenza di sterili staffette tra prime, seconde, terze repubbliche nell’improbabile gioco delle differenze nascoste. L’inizio di una recessione che ci avrebbe accompagnato per i successivi decenni. La necessità sempre più impellente di far sentire la propria voce, individuale, forte e comprensibile; una piccola rivoluzione in un Italia che si risvegliava dal plastico torpore degli anni ’80.
La scena musicale italiana ne fu in qualche modo travolta e segnata. La nuova generazione di musicisti cresciuta con la new wave inglese e mitteleuropea si ritrovò con un bagaglio consolidato di nuovi suoni e nuovi modi di espressione e la volontà di comunicare nel modo più diretto possibile; per i gruppi nostrani fu quindi normale “riscoprire” la lingua italiana ed utilizzarla come base da cui ripartire, prendendo come spunto i lavori di quei cantautori italiani che appena venti anni prima avevano vissuto tensioni sociali di pari portata.
Fiorirono piccole case discografiche su tutto il territorio nazionale che, con una libertà di espressione davvero inedita, e spesso in stretta collaborazione tra loro, diedero vita ad un piccolo ma compatto movimento culturale antagonista ed indipendente; il disco di esordio dei La Crus, pubblicato nel 1995, non fu il precursore di un genere ma racchiude in se tutti gli input fondamentali di una scena che nell’arco di pochi anni diede un contributo non indifferente alla piccola ma fiera musica “alternativa” italiana.
L’album, con la bellissima copertina di Giacomo Spazio, si apre con “Natura morta”, un vero e proprio manifesto di intenti, un incedere ipnotico di campionamenti in loop su una ritmica electro-industrial, un crescendo inquieto di echi e parole sofferte, scandite lentamente; un brano che ancora oggi a venti anni di distanza conserva intatto tutto il suo valore.
I La Crus disegnano in questo disco paesaggi freddi e disturbati miscelando sapientemente sonorità berlinesi, echi jazz, elettronica e canzone d’autore in una continua contaminazione delineando con una disarmante lucidità le strutture di una “nuova forma canzone”. Si passa dalle cover rimaneggiate di Piero Ciampi e Luigi Tenco a brani con attitudine più sperimentale come “Buco di pietra” e “Dov’è finito Dio”; dalle atmosfere cinematografiche di “Soltanto un sogno” (con citazione di Picnic at Hanging Rock di Peter Weir) e “Nera Signora” alla desolazione pasoliniana di “La Giostra”; dal reading sincopato di “Tarab” alla classicità cantautorale di “vedrai”. L’album si chiude con l’estraniante e decadente walzer di “Ricomincio da qui” che recita: “questo è un bel giorno per lasciare il caos ed il disordine dietro le spalle / questo è un bel giorno per dire: ora basta, no.. io ricomincio e riparto da qui”. La consapevolezza di incamminarsi su una vecchia via in cerca di nuove strade da percorrere.