Quando ho scoperto il fotografo Michael Kenna, divenuto subito per me un punto di riferimento, mi sono sorpreso nell’associarlo mentalmente al grande Ansel Adams. Eppure per tecnica e stile non hanno alcuna attinenza. Sembrano condividere solamente il paesaggio e la tecnica del bianco e nero. Due modi di interpretare l’arte della fotografia praticamente agli antipodi ma che, in realtà, hanno una loro sintonia di intenti. La sintonia degli opposti.
Adams, che potremmo definire un architetto della fotografia, pianificava gli scatti con la massima accuratezza tecnica e formale.
Ogni dettaglio organizzativo ed esecutivo è fondante nella generazione della sua immagine e la stessa accuratezza viene trasferita nella resa del risultato: ogni sfumatura di luce sostiene ed è sostenuta dai rapporti tonali circostanti, come avviene per ogni singola pennellata di una veduta pittorica ottocentesca. Il ritratto finale del paesaggio che ci ha lasciato in eredità è una poetica sintonia di elementi e di equilibri che trae vigore dalla natura il cui respiro più profondo è sempre l’anima di tutto il processo riproduttivo. Adams, in fondo, era un narratore che attribuiva il giusto peso ad ogni parola, dove la ricerca della perfezione tecnica, che gestiva autonomamente prima, durante e dopo la fase di scatto, era funzionale al racconto. Non è un caso che Adams conoscesse bene la musica. Una sensibilità che spiega la sua meticolosa attenzione alle sfumature e ai dettagli e la sua prodigiosa visione di insieme.
Eppure, Michael Kenna, che si sta imponendo come uno dei massimi autori contemporanei, fotografa per totale sottrazione e quindi in radicale divergenza da Adams.
Luci e ombre, anziché dialogare delicatamente, si contrastano fino all’esaperazione. Luci che diventano bianchi assoluti. Ombre che si anneriscono fino a mangiarsi ogni dettaglio, o perfino una totale assenza di contrasto e di punti di riferimento che immerge le fotografie in una nebbia indefinita e suggestiva laddove gli spazi sono più aperti, monotoni e solcati da elementi minimali, come una semplice linea di orizzonte che assurge a struttura portante, talvolta l’unica, della composizione. Quel che conta è l’equilibrio delle forme, dei pieni e dei vuoti, dei profili. Kenna predilige le ore del giorno che ne possono esaltare gli effetti di contrasto ed al contempo di sospensione, come il crepuscolo, l’aurora o l’assenza totale di luce diretta del sole. Ricorre spesso a pose lunghissime per impastare la percezione di tutto ciò che si muove come i fluidi, le nuvole o le stelle. Kenna non è un narratore come Adams, ma un pittore che privilegia la forza dell’espressività, resa più efficace con un lavoro ruvido ma preciso in camera oscura. Non è un caso che avesse una vocazione da pittore, prima ancora di quella da fotografo: una passione primigenia da cui ha tratto non solo l’insegnamento della sintesi espressiva ma anche l’importanza della materia, nel suo caso la pellicola, che manipola da solo, come un artigiano, in ogni fase del processo fotografico.
Mi sono chiesto, dunque, cosa hanno in comune Adams e Kenna, a parte il paesaggio, la tecnica del bianco e nero e una maniacale attenzione per i dettagli? Direi senza dubbio il paesaggio, il bianco e nero e una maniacale attenzione ai dettagli, ma anche l’ottenimento di un risultato artistico capace di cogliere l’essenza emotiva del paesaggio per farcene partecipi. Ci regalano due diverse percezioni, quella romantica e quella onirica, che nascono però dallo stesso sentimento. Vi pare poco?