Se il grado di civilizzazione di un paese si misurasse dalla giustizia, saremmo rovinati.
Qualche giorno fa sono stato chiamato a testimoniare per un’aggressione avvenuta davanti ai miei occhi.
Convocazione per le ore 11.
Arrivo in tribunale, cerco l’aula, entro.
Siamo al processo n°3, ed io sono il n°31!!! Penso: “Cavolo!! Qui faccio notte”.
La cosa drammatica è che siamo tutti ammassati nella stessa aula, testimoni, imputati, forze dell’ordine, gente che viene e gente che va, telefoni che suonano, chi tossisce, chi parla a voce alta, altri che vanno a prenotarsi da un segretario, manca solo il numeretto come dal macellaio e il quadro è perfetto.
Dimenticavo: il giudice è lo stesso per tutti i processi!!
Un povero Cristo sommerso dalle carte, che cerca tra tutti quei documenti.
Durata media?? Tre minuti, poi tutto rinviato al 3 ottobre 2014 ore 10,30, tutti!!
Comincio ad aver paura, penso a come possano giudicarmi un giorno se mai dovessi capitare sotto le mani della giustizia italiana.
Un uomo solo, che vede i quattro fogli una volta ogni dieci mesi, che deve giudicarmi in base a non so cosa o ad elementi che non può ricordare.
Intanto, mentre le mie paure si affollano nella mia mente, i processi vanno avanti, ci sono testimoni provenienti da Milano e non vengono ascoltati perché non si trovano dei documenti, forze dell’ordine che cercano di ricordare cosa fosse successo in quella notte del 2006.
Parlo con uno di loro che mi dice: “Sai quanti interventi ho fatto dal 2006 ad oggi? Pensi che io passa ricordare quello che è successo? L’unica cosa che posso fare è confermare il verbale di quella notte, lo richiedo, lo rileggo, sempre che non sia scomparso e lo confermo”.
Le mie paure, a questo punto, diventano fobie.
Gli avvocati, abbigliati come avvoltoi, si vestono e si spogliano rapidamente. Avanti un altro.
La mattanza, un mattatoio vero e proprio, un posto che vorrei evitare, la paura, la mancanza del diritto nella sede del diritto.
La giustizia non può essere questa, ma questo è solo un normale giorno in pretura.
Foto di Enrico Paravani ©