Una meravigliosa stella cadente. Un lampo. Un graffio profondo e indelebile.
Questo è stata Francesca Woodman. Che strano pensare a come tanta gente abbia faticato una vita intera per affermarsi, nonostante le aspirazioni legittimate da un talento vero, magari senza riuscirci o per riuscirci troppo tardi per potersi godere il successo raggiunto. Quante vite, invece, hanno brillato prestissimo, intensamente ma per un tempo troppo breve, per poi abbandonare questa terra lasciando una scia luminosa come quella di una cometa, capace di attrarre lo sguardo ammaliato di tutti noi. Nell’arte figurativa come nella musica, in particolare.
Francesca Woodman era una ragazza americana che ha iniziato a fotografare giovanissima, già da adolescente e sviluppando per proprio conto. Ha studiato all’estero e in Italia frequentando ambienti artistici che l’hanno influenzata moltissimo, peraltro apprezzandola da subito. Mossa da una grande passione arrivò a pubblicare molto precocemente il suo primo lavoro, una collezione di fotografie dal titolo Some Disordered Interior Geometries (Alcune disordinate geometrie interiori). Pochi giorni dopo aver raggiunto questo ambizioso traguardo si è suicidata gettandosi nel vuoto da un palazzo di New York. Aveva 22 anni. Da quel momento, era il 1981, l’arte che nel frattempo era riuscita ad esprimere è stata in grado di esercitare una notevole influenza sui decenni a seguire.
Oggi fa una certa impressione riguardare le sue immagini, per la commozione che questa fine tragica ancora suscita e per la notevole personalità delle opere che hanno precorso i tempi, tanto da risultare ancora oggi incredibilmente moderne. Chissà quali tormenti interiori, manifesti o in parte inconsci, l’hanno accompagnata mentre realizzava fotografie così nette e sicuramente un pò conturbanti. Francesca riprendeva soprattutto sé stessa, il proprio corpo, lo metteva al centro di composizioni a volte surreali, a volte intimiste, sempre connotate da una certa provocatoria, malinconica ironia, tipica della sua età ma artisticamente già matura. Allestiva da sola le sedute fotografiche, con pochi mezzi e in ambienti dimessi, poveri di arredi, ricorrendo spesso a doppie esposizioni o a lunghe pose per avere la possibilità di scattare e al contempo di posare davanti all’obiettivo: ma questa freschezza creativa, apparentemente istintiva, era supportata da uno studio attento dello scatto che preparava con cura impostando in modo meticoloso la composizione dell’inquadratura, sempre molto rigorosa. Faceva interagire con spirito ludico il proprio corpo con gli ambienti e con gli oggetti, a volte nascondendosi, giocando con le sovrapposizioni, con il mosso, ma rimanendo sempre protagonista insieme alla propria auto-affermazione artistica, certamente inquieta e oggi avvolta di una struggente intensità.
Riemerge la sua ammirazione dichiarata per la visionarietà di Max Klinger che tanto ha influenzato le atmosfere oniriche e surreali di Böcklin e De Chirico. Così come appaiono evidenti i richiami ai suoi grandi amori in campo fotografico, Man Ray e soprattutto quel Duane Michals nei confronti del quale il riferimento stilistico è più che evidente.
Studiava e scriveva molto Francesca, segno di riflessività e presupposto di progettazione. Il suo era uno sguardo lucido e lo spiccato senso estetico di cui era dotata ha reso le sue immagini indimenticabili. Commuove il suo primo autoscatto, a soli 13 anni, dove si riprende con il volto coperto dai capelli e schiaccia il pulsante dell’otturatore aiutandosi con un bastone. Semplice, geniale, diretta. Un’immagine emblematica della sua tormentata consapevolezza artistica, allora così acerba eppure già definita.
“Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete, nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza.”
“Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate “