La scena musicale fu rivoltata negli stili e nei significati quando Dylan, nel 1965, al festival di Newport diede scandalo tra la comunita’ folk con la sua svolta elettrica; quel giro di rullante incipit di “Highway 61 revisited” puo’ essere considerato a ragione lo spartiacque che trasformò un artigianato musicale di derivazione popolare, in una forma artistica moderna, espressione di una individualita’ e rappresentazione diretta della contemporaneità. La consapevolezza tutta nuova che con i suoni era possibile colorare storie, riempire spazi vuoti, dare libero sfogo a quella creativita’ che il benefico humus degli anni ’60 aveva distribuito diffusamente a chi aveva avuto voglia e spirito per accoglierla; a rispondere furono in molti.
Nel giro di una ventina di mesi, tra la West Coast, l’Atlantico e l’Inghilterra vennero pubblicati una serie di dischi che saranno fondamentali per la storia del rock. Dalla scena newyorkese e il primo album dei Velvet Underground battezzato dalla factory warholiana, a Frank Zappa, Beach Boys, The Doors, King Crimson, Jimi Hendrix, Jefferson Airplane, Pink Floyd, Beatles, Rolling Stone giusto per citare i più noti.
Tutto questo fu reso possibile grazie ad una generazione straordinaria di musicisti, figli della controcultura dilagante, alla disponibilita’ verso il “nuovo” di un pubblico maturo ad un ascolto ricercato e, soprattutto all’apertura delle grandi case discografiche che finanziarono una infinita’ di arditi esperimenti sonori, offrendo grande liberta’ creativa a musicisti praticamente sconosciuti. Tra le tante personalita’ straordinarie rimasero in ombra molti artisti che, considerata la qualita’ e la vastissima proposta di quegli anni, vennero all’epoca considerati “minori”: Tim Buckley e’ certamente il piu’ originale e il piu’ straordinario tra questi musicisti di nicchia.
I primi lavori di Tim Buckley sono fortemente influenzati dalla cultura folk, ma sin dall’inizio gia’ caratterizzati da un utilizzo particolarmente curato della voce; nel 1966 a 19 anni firma il suo primo contratto discografico, abbandona definitivamente la giovane moglie e un figlio appena nato e comincia un tour per gli States. L’unione tra le sonorita’ psichedeliche e la sua personalissima ricerca sull’utilizzo della voce lo porta a registrare splendidi dischi quali “Goodbye and hello” (1967) ed “Happy sad” (1969); per nulla soddisfatto delle scarsissime vendite e la poca considerazione del pubblico inizia un percorso di sperimentazione sonora assolutamente inedita, miscelando il free-jazz alla Coleman e Coltrane ad improvvisazioni vocali e strumentali in studio, creando un flusso dilatato di suoni del tutto innovativi; i primi risultati di questa ricerca si ritrovano nell’album “Lorca” (1970) con il quale il musicista abbandona definitivamente la forma canzone, il lavoro risulta essere enormemente in avanti con i tempi e completamente al di fuori dalla comune estetica musicale.
Buckley viene relegato ai margini della scena dai discografici e dal pubblico, in quel periodo e’ inoltre vittima di forti depressioni e abuso di eroina. Dopo poche settimane dall’uscita di Lorca, torna in studio con un piccolo stuolo di fidati musicisti, pochi giorni di session per registrare un nuovo disco, “Starsailor” (1970): uno dei piu’ sconvolgenti vicoli ciechi della cultura rock. Buckley spinge la sua band verso lidi sconosciuti, viaggiando costantemente controcorrente rivolge la sua straordinaria estensione vocale verso sonorità d’avanguardia.
Come una sorta di proto-punk riduce drasticamente la durata dei pezzi, introduce audaci cambiamenti di ritmica e tonalita’ all’interno dei singoli brani e soprattutto porta la sua voce dove nessuno aveva mai osato spingerla; quella voce, un suono tra i suoni, un flusso disperato di frequenze avviluppate e sovrapposte. Una sperimentazione questa mai fine a se stessa, Starsailor, per quanto risulti ostico in alcune sue parti, serba al suo interno ritmiche trascinanti, deviato rhythm and blues, arrangiamenti visionari e melodie sorprendenti.. Song to the siren, deformata ed estraniante, divide simmetricamente il disco in due tronconi ed e’ certamente una delle piu’ straordinarie ballate folk mai scritte. Le sedici parti vocali sovraincise della title track portano Buckley nelle aree piu’ inperscrutabili della musica moderna, esperienze sonore che nessuno aveva mai osato saggiare.. Tim traccia una via ferrata su una vetta troppo alta per essere ritrovata, la sua corsa su quei sentieri troppo veloce per essere seguita, il “nuovo genere” creato da quel disco verrà abbandonato e mai piu’ ripreso in futuro. Il disinteresse generale scaturito da Starsailor costrinse Buckley a tornare sui suoi passi adeguandosi a quella media ottusa ed opaca alla quale per molto tempo si era fortemente contrapposto; negli anni successivi sembra dimenticarsi totalmente dei suoi trascorsi da “navigante delle stelle”, scrivendo ballate soul e folk-rocked incise altri due dischi di scarso valore. A 28 anni, relegato ai margini, morirà di overdose e così accomunato alle ben più note rock star della sua generazione.
La lungimiranza delle vecchie case discografiche scomparve insieme agli smaglianti colori della Summer of Love e con il passaggio alla musica digitale, quel disco, Starsailor, non verrà mai riversato in cd. Il nome di Buckley cadde nell’oblio e nel vuoto che egli stesso aveva rappresentato con quel suo capolavoro ignorato; riscoperto solo negli anni ’90, in piena esplosione grunge, quando il figlio Jeff, con lo stesso volto angelico e riccioluto, stessi occhi neri e identica sconcertante voce cambio’ radicalmente con un solo struggente disco le atmosfere di un intero decennio…
libro consigliato
Jeff Buckley. Aspetto nel fuoco – Chiara Papaccio – 1999 – giunti editore