La disoccupazione giovanile nell’eurozona tocca i 23,9 punti percentuali ad aprile 2013, in aumento di 0,5 punti rispetto all’anno precedente. Nei 17 paesi dell’eurozona il tasso di disoccupazione medio giovanile ha toccato un massimo storico, infatti dal 1977 i dati non erano così allarmanti.
In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 39,5 per cento, con un aumento di 3,4 punti percentuali rispetto al secondo semestre 2012 e di 4,3 punti su base annua. L’aumento del numero dei disoccupati è concentrato soprattutto al Nord e nelle regioni del Centro, mentre la crescita della disoccupazione nel Mezzogiorno risulta bassa nonostante quasi la metà dei disoccupati sia residente nelle regioni meridionali; la spiegazione di questa contraddizione sta nella crescita dell’inattività e cioè nel fatto che molte persone, soprattutto al Sud si sono allontanate dal mercato del lavoro. Questa caduta della propensione a partecipare al mercato del lavoro in concomitanza con la crisi economica ha sottolineato un effetto scoraggiamento: a maggiori difficoltà nel trovare lavoro corrisponde un aumento dei giovani che rinunciano a cercare lavoro. Una ragione va ricercata nel fatto che la perdita di posti di lavoro ha riguardato principalmente contratti temporanei, collaboratori e indipendenti, tipologie di contratto, a basso costo, che non prevedono tutele della sicurezza del lavoro.
Osservando la distribuzione dei disoccupati e delle forze di lavoro per classi di età si nota che la maggior parte dei disoccupati ha meno di 35 anni, in particolare, il maggior numero di disoccupati rimane tra i 25 e i 34 anni, proprio l’età in cui in Italia si fa l’ingresso nel mercato del lavoro.
I giovani pagano così un prezzo per fattori come la scarsa esperienza sul mercato del lavoro, la problematica transizione dalla scuola al lavoro, la mancanza di competenze e la mancanza di capacità nella ricerca di lavoro oltre che di risorse economiche da utilizzare durante la ricerca.
La transizione fra studio e lavoro resta molto problematica; le esperienze lavorative organizzate nel percorso scolastico e universitario e, più in generale, lo scarso raccordo fra sistema educativo e mondo del lavoro finiscono per allungare a dismisura il numero degli anni trascorsi dalla fine degli studi all’occupazione.
Il CNEL ha calcolato che meno della metà delle persone trova un lavoro nei cinque anni successivi alla conclusione degli studi. Inoltre, anche quando il lavoro si trova, il rischio per i giovani di restare intrappolati nella precarietà è altissimo e aumenta con il crescere della discontinuità lavorativa. Il paradosso (che contrasta con la tesi secondo cui bisogna favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro ad ogni costo) è che aspettare l’occasione di un buon lavoro può diventare la scelta più fruttuosa. Questo ha una forte implicazione in termini di equità sociale: le famiglie che non possono permettersi di mantenere i loro figli impegnati nella ricerca di un buon lavoro subiranno una discriminazione e a questi giovani mancheranno le opportunità per trovare buoni impieghi.
Altra caratteristica del rapporto tra i giovani e il mercato del lavoro riguarda la categoria dei NEET (Neither in Education nor in Employment or Training), sono i giovani che non risultano attivi nel mercato del lavoro (non hanno, né cercano occupazione) ma non sono nemmeno impegnati in studi o in qualsiasi processo di formazione.
“I NEET – come ci suggerisce l’ISTAT – possono essere persone che hanno appena terminato il corso di studi e si prendono una pausa prima di cercare lavoro, o iniziare una nuova fase di vita, si tratta di una categoria che può essere considerata di passaggio (visto che presenta alti flussi di entrata e alti flussi di uscita), ma sono anche persone considerate ad alto rischio marginalizzazione dal mercato del lavoro.”
I NEET rappresentano in Italia il venticinque per cento dei giovani tra i 20 e i 24 anni; inoltre la permanenza in questo stato è pari al trenta per centro, contro una media europea che non supera i dieci punti percentuale. In altre parole, in Italia il fenomeno NEET rappresenta una quota tutt’altro che trascurabile tra i giovani.
Questo è frutto, in parte di una situazione economica non delle migliori, ma soprattutto di politiche del lavoro superficiali, non complete o del tutto errate.
Una serie di provvedimenti che dovevano liberalizzare il mercato del lavoro in una visione di maggiore flessibilità contrattuale, politiche attive efficaci, formazione continua, ecc, nella realtà hanno creato uno strano universo formato da un numero considerevole di contratti a tempo.
Foto di Enrico Paravani ©