Dall’estate del 2007 viviamo una crisi finanziaria globale e ci prepariamo ad anni di recessione economica. Il 2011 è stato l’anno della grande rivoluzione mondiale, l’anno in cui un’intera generazione ha provato a cambiare il corso del futuro. Dall’occupazione di piazza Tahrir al Cairo e la caduta dei regimi totalitari dell’Africa mediterranea, dagli indignados che hanno invaso il centro di Madrid, agli studenti argentini che hanno bloccato un intero Paese, fino alla nascita del movimento mondiale #occupy. Abbiamo assistito agli albori dell’orgogliosa auto affermazione di una generazione di ragazzi, che oggi hanno come unica prospettiva quella di terminare gli studi senza un lavoro e senza futuro, curvi sotto il peso di un debito enorme di cui non sono responsabili. Non si devono meravigliare se chiediamo solo di fare quattro chiacchiere con i potenti della finanza che ci hanno rubato il futuro.
#occupy segna un momento cruciale della storia mondiale e di questa generazione che sente un forte senso di impotenza, quasi di disperazione, verso quello che accade. È una situazione nuova. L’elemento di discussione è semplice: l’uno per cento della popolazione detiene la ricchezza mentre il restante novantanove ha una scatola vuota.
Nel corso della storia quando un numero sufficiente di persone s’indebitava troppo, di solito scoppiava una rivolta. Negli ultimi tre secoli la crescita economica si è basata sul presupposto che non si sarebbe mai fermata. Pensavamo di essere più ricchi di quanto fossimo in realtà. Abbiamo vissuto di un’economia edonistica come se non ci fosse futuro. Questa crisi e la sua recessione hanno definitivamente sancito il fallimento del modello capitalistico e con lui le generazioni di economisti ed istituzioni che continuano a tesserne le lodi come unico e possibile modello di sviluppo economico: il debito non produce ricchezza, ricchezza non chiama altra ricchezza così come per distribuire il reddito non occorre prima creare ricchezza. La crisi economica mondiale iniziata come crisi del debito, si è già evoluta in recessione e quindi crisi della domanda, ma il tutto sembra svolgersi solo apparentemente all’interno dei mercati.
Secondo l’economista statunitense Adam Smith lo scambio di beni e servizi non richiede interventi esterni per regolarsi, in particolare non necessita dell’intervento di una volontà collettiva razionale. Su questo concetto, universalmente riconosciuto, i mercati sono cresciuti ed oggi hanno mostrato i segni della loro più totale irrazionalità; le grandi potenze economiche e le istituzioni neo liberiste hanno garantito ai mercati l’intoccabilità, la loro non regolamentazione, e gli hanno permesso di auto attribuirsi il compito di decidere la vocazione (posizionamento) di un Paese all’interno dell’economia mondiale. Hanno dimostrato di non essere in grado di distribuire il reddito in modo sostenibile (1% vs 99%) e anzi di agevolare la forbice di separazione tra i ricchi e i poveri; hanno trasferito il dovere e responsabilità, che sono fattori sociali, al debito, che invece è un concetto puramente finanziario.
In Europa la crisi e la recessione ha colpito tutti i Paesi della zona euro. Con la creazione, nel 1999, di una moneta unica, di un nuovo mercato europeo di scambio dove investire ed iniziare un processo di unificazione delle politiche economiche è stato deciso che il modello tedesco fosse l’indice di equiparazione di tutte le economie dei Paesi che ne volevano fare parte, quindi la competitività, il tasso d’interessi, il rapporto PIL/DEBT, ecc, erano rapportati alla Germania ma venivano lasciati i rischi economici entro i limiti nazionali dei singoli Paesi: ecco quindi che i Paesi membri sopra quei limiti si sono precipitati a crescere e consumare. I romani ci hanno insegnato che quando si conquistavano nuove terre, in toto erano applicate su quelle genti le leggi di Roma, le sue istituzioni erano Governo, le sue politiche economiche, religiose e culturali.
In questo l’Unione Europea ha mostrato la sua fragilità essendo l’unico caso nella storia in cui popoli diversi tra loro condividano una moneta senza l’esistenza di un unico Governo.
L’Unione Europea risulta così una unione-non unione di Stati che a seconda dei loro governi sovrani e la loro differente influenza sullo scacchiere estero decidono cosa fargli fare. In questo la crisi è stata forte, consegnando ai governi guidati da conservatori il potere di applicare manovre a livello europeo che reprimono le economie di tutti, indistintamente, anche di quei Paesi che già prima della crisi avevano difficoltà. C’è stata un’estrema difesa dei Paesi creditori attraverso un piano che finora ha visto il salvataggio delle banche, too big to fail, l’impossibilità di ristrutturare i debiti sovrani ed una negazione dell’aumento dell’inflazione.
Questa è un’Europa a due velocità. Da una parte i sei paesi della zona euro che hanno ancora un debito classificato con la tripla A spingono affinché si arrivi ad un nuovo trattato economico che elimini definitivamente ogni alternativa, in favore di una politica di austerità. Dall’altra parte i restanti paesi membri che vedono prospettarsi per il loro futuro un’integrazione a ritmi diversi se non addirittura che un Paese sia costretto ad abbandonare l’euro.
Ciò evidenzia come la crisi, invece di essere l’occasione per avanzare finalmente verso un’unione politica in cui ci sia spazio per tutti, sarebbe la scusa per disfarsi di quelle zone e di quei Paesi che, per alcuni, sono le zavorre che frenano il progresso degli altri. Queste scelte adottate da un certo tipo di liberismo conservativo attraverso manovre e programmi di austerità e non con operazioni espansive, anche superando i limiti delle sovranità nazionali, dovrebbero farci riflettere a fondo sul perché ci troviamo in questa situazione, perché continueremo a starci per molto tempo, e come ne potremmo uscire. La diffusa convinzione che occorra ad ogni costo pagare i debiti corrompe il nostro impulso ad aiutarci a vicenda. Non sono i debiti, ma i rapporti umani ad essere sacri.
I libri di testo di economia ci hanno raccontato una storia in cui la moneta e i mercati nascono dalla tendenza a scambiare e barattare; le persone scambiavano sette polli con una capra, o un sacco di granaglie con un paio di sandali, poi un mercante intraprendente ha capito che era più facile attribuire a tutti quei beni un prezzo e un mezzo di scambio comune, l’argento, l’oro, ecc. Da qualche anno a questa parte molti antropologi sostengono che tutta questa storia, per quanto ne sappiamo, non è mai avvenuta. Non si conosce nessun caso di economia di baratto pura, figuriamoci poi se da un’economia del genere può essere nata la moneta. Nelle società senza moneta le persone non ricorrono al baratto, salvo quando hanno a che fare con perfetti sconosciuti o nemici. Piuttosto si scambiano oggetti, a volte come forma di tributo, in altri casi per ottenere qualcosa in cambio successivamente, altre volte ancora come puro e semplice dono. Quindi la monete non è stata creata da commercianti che volevano semplificare gli scambi: è stata introdotta da Stati come l’antico Egitto e l’impero romano, o da grandi burocrazie come quella dei Sumeri, per avere un modo più efficiente con cui pagare le imposte o anche solo per misurare la proprietà. Sono nati così, col passare del tempo, anche il concetto di prezzo e l’idea di mercato. Secondo l’antropologo statunitense David Graeber “occorre studiare l’atteggiamento che gli uomini hanno sempre avuto nei confronti del debito, visto di volta in volta come obbligo e come peccato, come motore di crescita economica e come strumento di oppressione. Il debito è stato sempre considerato moralmente doveroso da onorare, perché è servito agli Stati per controllare i sudditi e le loro risorse, con l’obiettivo di finanziare le guerre. Il problema dei debiti non è solo che averne troppi fa male, ma ancora più importante è il fatto che i debiti rovinano la propensione innata degli esseri umani ad aiutarsi a vicenda.” Comprendere le origini sociali dei debiti dovrebbe rendere molto più facile rinegoziarli quando le condizioni cambiano. A Babilonia, in Assiria e nell’Egitto dei Tolomei si svolgevano regolarmente giubilei per condonare tutti i debiti, sia quelli tra privati cittadini sia quelli tra Paesi. Anche perché in caso contrario, come non tardarono a capire i governanti, negli anni di raccolto scarso i contadini erano sommersi dai debiti e prima o poi scoppiava una rivolta.
Il primo documento politico in cui sia mai stata usata la parola “libertà” fu un editto emanato dal legislatore sumero Urukagina per la cancellazione dei debiti e la regolamentazione del mercato (riforma di Urukagina, 2350 a.C.). Sempre secondo Graeber “questa soluzione allevierebbe tante sofferenze umane, ricorderebbe a noi stessi che la moneta non è una divinità, che pagare i propri debiti non è il massimo della moralità, e che se democrazia significa qualcosa, questo qualcosa è che possiamo metterci tutti d’accordo per organizzare la società in un modo diverso”.
Quale deve essere allora questo nuovo modo di organizzare la società? Qual è il modello economico da seguire o inventare da zero?
La domanda non è facile e la risposta non sembra a portata di mano, ma possiamo individuare degli elementi in questa crisi che faciliterebbero questo processo di creazione. Primo fra tutti un giubileo con cui cancellare i debiti ed invertire finora quello fatto; condannare in modo imperativo le aziende che hanno speculato sui debiti dei cittadini. Seconda cosa, ridistribuire la ricchezza tra la popolazione (anche se in cifra minima pro capite), in questo modo si salverebbero i rapporti sociali tra i cittadini e non le banche che di questa crisi e della sua speculazione sono l’eminenza grigia. Terzo punto, non meno importante, immaginare un nuovo modello economico, che preveda tra i pilastri fondanti la regolazione dei mercati, solo in questo modo potremmo prevenire, in futuro, crisi economiche come questa che stiamo affrontando.
In Europa? Avviare, come dettato nel trattato di Roma del 1950 e s.m.i., l’unione politica di questa. Pensare a un grande stato federale, in cui i Peasi membri condividano non solo una moneta ed un mercato economico comune, ma anche norme, giustizia, diritti, difesa, welfare, cultura, politiche di sviluppo comuni, insomma si vada avanti verso una cultura europea, libera, aperta, multietnica e comunitaria. Di seguito la politica economica sarebbe più facile, avremmo l’europeizzazione dei rischi di ogni singolo Paese e quindi del debito (i famosi “eurobond”) e una Banca Centrale più forte ed autonoma, con una definizione precisa del suo lavoro e del suo campo d’azione, radicata attraverso le attuali banche nazionali, in ogni territorio dell’Unione. Poi sarebbe bello anche ipotizzare un nome per questo Stato federale, Unione Europea, Stati Uniti d’Europa, Unione delle Repubbliche Democratiche d’Europea, ecc.
Intanto che aspettiamo più Europa, in Italia cosa possiamo fare?
Constatando tutti i problemi del nostro Paese e le poche risorse economiche a nostra disposizione, bisognerebbe incominciare razionalizzando la spesa, che non significa fare i tagli orizzontali dell’ex ministro Giulio Tremonti o la cintura stretta del governo Monti, ma concentrare lo sviluppo attraverso l’aumento della domanda, trainata non dai consumi, ma dagli investimenti sulla cultura e nella ricerca. In questo modo ad esempio le eccellenze del nostro Paese sarebbero messe in risalto e la percentuale di “fuga dei cervelli” diminuirebbe notevolmente; la contropartita potrebbe essere che l’Italia diventerebbe terra di accoglienza per i ricercatori esteri. Ad esempio, andando a valorizzare il patrimonio archeologico paesaggistico pubblico si creerebbe un circuito (economia della cultura), che molti Paesi meno “forniti” di noi, oggi, accreditano intorno al 10-12% del PIL. Certo è che tutto deve passare da tre fondamentali principi: ogni forma di sviluppo di qui in avanti dovrà essere sostenibile, le rendite sugli investimenti debbono essere tassate e l’accesso al credito per i cittadini e le imprese deve essere facilitato, ad esempio forzando le banche a ricapitalizzarsi.
Foto di Enrico Paravani ©