Ferrara. E’ la notte tra il 25 ed il 26 settembre 2005. Federico Aldrovandi, appena diciottenne, scende dall’auto di amici. Vuole percorrere a piedi l’ultimo tratto di strada che lo separa da casa, dopo aver trascorso la serata in compagnia.
Ha bevuto poco, il ragazzotto, e tirato della marijuana.
Da viale Ippodromo arriva Alfa 3, una pattuglia del Nucleo di Pronto Intervento della Polizia di Stato, con a bordo gli agenti Enzo Pontani e Luca Pollastri. I due tentano di fermare il ragazzo, ma qui le versioni sui fatti divergono.
Gli agenti descrivono Federico come un “invasato violento in evidente stato di agitazione“, che li avrebbe “aggrediti a colpi di karate e senza un motivo apparente“.
La sentenza che condanna gli agenti parla invece di “un intervento non ortodosso e non conforme ai criteri della correttezza che, dal punto di vista deontologico, dovrebbero connotare i comportamenti degli agenti delle forze dell’ordine di fronte ad una persona che nulla di illegale stava compiendo, nessun delitto era in procinto di realizzare, nessun effettivo disturbo o pericolo per la quiete pubblica stava concretamente attuando”.
La verità ha smesso di esistere.
Federico reagisce e gli agenti chiedono rinforzi. Arriva quindi Alfa 2, con a bordo gli agenti Paolo Forlani e Monica Segatto.
Sono in quattro adulti contro un diciottenne.
Sembra addirittura che la prima volante chiami l’ambulanza ancora prima di tentare un secondo assalto a Federico. Nessuno spiega alla centrale del 113 a cosa serva l’intervento sanitario. Probabilmente hanno deciso di andarci giù pesante.
Mentre l’ambulanza sta arrivando, il ragazzo finisce a terra, placcato e picchiato per minuti, tanto a lungo e con tanta forza che due manganelli si spezzano contro la sua schiena. In quattro lo sbattono a terra e gli montano sopra, con i piedi e le ginocchia.
Quando gli agenti si accorgono che il ragazzo non si dibatte più, Federico è oramai privo di coscienza, forse già morto.
E’ l’alba quando arrivano i soccorsi.
Federico è riverso, col volto devastato e tumefatto dai colpi, in una pozza di sangue. Ha le braccia ammanettate dietro la schiena. I soccorritori tentano di rianimarlo ripetutamente, ma il ragazzo non riprende a respirare
“Asfissia da posizione” è la causa di morte, riportata dal certificato ISTAT.
Assieme alla verità, muore un ragazzo di diciott’anni.
I genitori di Federico verranno avvisati oltre cinque ore dopo la constatazione dell’avvenuto decesso.
Rimini, 29 aprile 2014.
Un applauso accoglie gli agenti Paolo Forlani, Luca Pollastri ed Enzo Pontani al loro ingresso al Congresso Nazionale del SAP (Sindacato Autonomo di Polizia). Dura ben cinque minuti.
Dopo la verità e dopo Federico, muore anche la dignità di un’Istituzione.
Non c’è vergogna tra quei padri e quelle madri in divisa che tributano un applauso a chi ha commesso un omicidio indossando una divisa. Il loro gesto è infinitamente più grave di quello compiuto dagli agenti delle volanti. Non c’è concitazione a scusarli. Non c’è paura. Non c’è alcuna reazione istintiva fuori controllo.
E’ il gesto di una casta che si schiera a propria difesa, anche quando una sentenza, oramai passata in giudicato, ha sancito che Federico è la vittima di un omicidio colposo.
Provo vergogna per quell’applauso. Gli agenti del SAP colpiscono a sangue freddo. E la loro prima vittima è la divisa che indossano.
Foto di Enrico Paravani ©