Il 28 febbraio, il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva il DLgs di recepimento della Direttiva 2010/63/Ue sulle sperimentazioni animali. Si parla di un decreto con un cuore animalista al quale la comunità scientifica ha già annunciato ricorso non appena sarà pubblicato in gazzetta ufficiale.
Ma perché?
In effetti la direttiva europea sulla sperimentazione animale aveva allargato le sue maglie con la motivazione di armonizzare le legislazioni nazionali, ma, analizzandola a fondo, troviamo una serie di contraddizioni, definite deroghe, che lasciano mano completamente libera agli utilizzatori di animali a fini scientifici.
L’impianto della legge è chiaro, un continuo rincorrersi di illuminanti definizioni e sconcertanti deroghe, che fanno presagire il peggio.
Ad esempio, l’art. 11 paragrafo 1 sancisce che “gli animali randagi e selvatici delle specie domestiche non sono utilizzati nelle procedure”, che di per sé era una innovazione, per poi contraddirsi subito nel 2: “Le autorità competenti possono concedere deroghe al paragrafo 1 soltanto alle condizioni seguenti: a) è essenziale disporre di studi riguardanti la salute e il benessere di tali animali o gravi minacce per l’ambiente o la salute umana o animale; e b) è scientificamente provato che è impossibile raggiungere lo scopo della procedura se non utilizzando un animale selvatico o randagio”.
Dal punto di vista etico, le associazioni animaliste avevano già dichiarato battaglia alla legge tramite l’Iniziativa Europea dei Cittadini tentando di farla abrogare. In italia invece si sceglieva la via del recepimento della direttiva inserendo alcuni emendamenti restrittivi che potessero ridare dignità al mondo animale.
Prima di entrare nel dettaglio dei cambiamenti normativi e delle ragioni delle proteste dall’una e dall’altra parte, tentiamo di fare chiarezza su un argomento che oserei definire ostico.
Quali sono le definizioni che vengono usate nel campo della sperimentazione?
I termini più frequenti che sentiamo sono: “procedure”, “sperimentazione animale” e “vivisezione”. Facciamo intanto chiarezza sulle definizioni.
Procedure: “qualsiasi uso, invasivo o non invasivo, di un animale a fini sperimentali o ad altri fini scientifici dal risultato noto o ignoto, o a fini educativi, che possa causare all’animale un livello di dolore, sofferenza, angoscia o danno prolungato equivalente o superiore a quello provocato dall’inserimento di un ago conformemente alle buone prassi veterinarie”.
Sperimentazione animale: “si intende l’esperimento a scopo di studio e ricerca effettuato su animali da laboratorio (ad esempio in ambito farmacologico, fisiologico, fisiopatologico, biomedico, biologico), finalizzato ad individuare le sostanze potenzialmente dannose/tossiche per l’uomo presenti nei farmaci e in generale nelle sostanze testate”.
Vivisezione: “atto operatorio su animali vivi, svegli o in anestesia totale o parziale, privo di finalità terapeutiche ma tendente a promuovere, attraverso il metodo sperimentale, lo sviluppo delle scienze biologiche, o a integrare l’attività didattica o l’addestramento a particolari tecniche chirurgiche o, più raramente, a fornire responsi diagnostici”.
Appare evidente che la vivisezione sia solo una piccola parte della sperimentazione in toto, direi quella meno rappresentativa, anche perché governata da norme molto restrittive che la rendono poco probabile nella pratica sperimentale.
Fonti:
Foto di Enrico Paravani ©