Il Pronto Soccorso è affollato di dolori, come sempre.
Le barelle sono stipate ad occupare ogni metro quadro utile delle stanze, sino a tracimare nel corridoio.
Come scolorite navi in disarmo, in fila lungo una banchina secondaria del porto, schiere di anziani macilenti attendono un posto letto che non arriva. Malati che, assieme a tutti i propri diritti, hanno perso anche la non invidiabile possibilità d’essere appellati come “il letto X”, come ancora oggi succede in reparto.
Non hanno numeri, i pazienti del PS. Ed hanno volti che cambiano in fretta e di continuo. Più che un vero reparto ospedaliero, un PS è come una fermata della Metro. Dovrebbe essere solo un luogo di transito, per chi ha davvero bisogno di un ricovero.
Malati che non è possibile curare: si punta al massimo a farli sopravvivere sino al cambio di turno.
Anche questa notte Marta non chiuderà occhio. Barricata dentro quella divisa verde un po’ lisa dovrà riuscire a traversare la notte, tra irresistibili marosi di sonno e le tante manovre da esperta marinaia di corsia.
La sua personalissima battaglia contro i dolori e le pretese che quel corridoio colleziona non consentono pause.
“Infermiera! La padella!”, sbraita sgarbatamente un leone marino, mollemente spiaggiato su una barella che non ha affatto l’aria d’esser stata concepita per cotanto passeggero. Una nube densa di sudore macerato avvolge il mammifero marino, le cui mani portano strati di zozzura attentamente conservata nei mesi.
“Marta, potresti mettere un vescicale al signor Caio?” le sussurra l’unico medico di turno, mentre si invola lungo il corridoio per raggiungere la sala rossa, dall’altro lato del reparto. E Caio è il pachiderma marino, afferra con disgusto Marta.
“Marty, mi daresti una mano a tirare su quella vecchietta, che è la terza volta che tenta di volare giù dalla barella?” le chiede la giovanissima collega in turno con lei. Un ottimo gancio per riprender fiato.
Marta ha un contratto da precaria. Il suo lavoro ha un orizzonte di sei mesi e la sua vita si consuma rassegnatamente così, di semestre in semestre, oramai da anni. Reclusa da precaria in Pronto Soccorso non avrà carriera né alternative per anni.
Ma questo al signore che le si para davanti non interessa. Ha l’alito dolciastro di vino e le mani ingiallite dal fumo.
“Signorì! Mo’ basta! Mi’madre so quattro giorni che sta qua e nun je state a fa’ gniente!”. E’ esasperato. Vede la madre peggiorare, come appassire, di giorno in giorno. Ormai mamma Rosa non gli risponde più. Non mangia più nulla. Quel naso sempre più affilato gli ricorda quello di papà, mancato un anno prima in quello stesso Pronto Soccorso. Ed è stanco, stravolto, impaurito.
Marta non alza la voce. Può solo indietreggiare. Ma quell’uomo ha bisogno di un colpevole, di qualcuno a cui urlare addosso tutta la sua rabbia. Freme dal desiderio di afferrarla, strattonarla, allungarle un ceffone. In quel momento lei è l’ospedale che non dà un letto alla mamma, il medico che non la cura, la morte che gliela porta via.
Lo sguardo corre in cerca di Salvatore, la guardia giurata che oramai trascorre tutte le notti in Pronto Soccorso.
L’adrenalina le brucia sotto la pelle, il cuore accelera e le gambe si fanno molli, mentre si prepara a schivare un ceffone che non merita. Poi il ragazzone in divisa giunge alle spalle di quelle urla, che ben presto si calmano, trasformandosi in maledizioni ed allontanandosi verso la sala d’attesa.
Marta corre di nuovo dal tricheco sdentato. Prepara il catetere, i guanti, il lubrificante, una traversa assorbente… E ripensa al giorno in cui ha creduto che questo mestiere le avrebbe dato un lavoro sicuro e ben pagato.
Coraggio Marta, sono già quasi le tre del mattino. La città, lì fuori, sonnecchia ignara sotto una informe nube gialla che galleggia come un fumetto in cima alla centrale.
Domani l’Onorevole inaugurerà il nuovo Pronto Soccorso, che poi è quello vecchio incartato in uno strato di sottile linoleum azzurro. Marta non ci sarà, perché domani a lei tocca un’altra notte.
Foto di Enrico Paravani©
1 Comment
Paola Angeloni
24/02/2014 at 11:29Il narrare è la maniera migliore per riconoscersi prima di conoscere.