Camminiamo, e il nostro cammino ha l’odore di una marcia.
Marciamo, quindi. Marciamo per andare avanti il più possibile, per non fermarci in mezzo alla vita.
Ci seguono i figli, i fratelli, i genitori, ci segue anche chi non cammina più.
Incrociamo lo sguardo con i fantasmi, sulla pelle le impronte delle loro dita.
Quel giorno è stato un inverno acido.
Marciamo per questo, per prosciugare l’avidità di chi decide per il nostro bene e poi ci lascia diventare fantasmi.
Marciamo e siamo tanti, ma ancora troppo pochi.
Per questo marciamo.
Siamo arrivati ad un punto, vogliamo risposte. Vediamo un filone di carabinieri. Il pericolo siamo noi? Siamo davvero noi il pericolo? No, noi siamo in pericolo. Come loro. Ricattati con il lavoro. Come loro.
Urliamo. Esci! Spiegaci! Dicci perché quel giorno non eravamo noi ciò che andava protetto!
Lui esce, parla con qualcuno, brandisce un sorriso. Non ci prende sul serio!
Un ingorgo di domande soffocano tra la folla. Qualcuno litiga, c’è chi vorrebbe picchiare. Non siamo noi, è uscito con lui.
Mi fermo a sistemare la scena per fare posto ad una spiegazione. Cado, cadiamo tutti: la spiegazione c’è, ma non nasce nel nostro stesso terreno. E’ una piantagione in cui crescono interessi che tintinnano come spiccioli. Interessi che riempono le tasche, interessi che non sono veloci come la luce, ma arrivano sempre prima.
Prima. Prima di tutti. Prima di noi. Anche prima di chi pensa di averci fregati tutti mentre dice di aver agito pensandoci ogni secondo, di volerci far adottare da qualcosa che intanto ci strappa l’aria dai polmoni per immagazzinarvi il carbone.
Marciamo. Marciamo ancora, il viaggio è lungo. E noi non dobbiamo smettere di marciare.