[heading style=”subheader”]Cosa significa oggi fare cultura nella società italiana e globalizzata? Cosa pensiamo quando leggiamo che “con la cultura non si mangia”? [/heading]
Questo è il frutto degli ultimi venti anni, anni in cui i mezzi di comunicazione ed il loro nuovo uso hanno avviato un processo di generalizzazione nel Paese, non attribuibile a fattori esterni, cambiando radicalmente il modo di comportarsi di tutti noi.
Quando abbiamo iniziato a pensare che in fondo guardare un reality fosse meglio che ascoltare musica, quando abbiamo smesso di regalare ai compleanni un libro, quando abbiamo iniziato a vedere in una comparsa televisiva un personaggio da imitare, non ci siamo neanche troppo spaventati di quello che sarebbe accaduto dopo, ingenuamente convinti che tutto sarebbe rimasto come sempre. Ed invece, è come se avessimo vissuto in una società lobotomizzata “dove uno spasmodico bisogno di evadere dalla realtà, ci ha corrotti”, sostiene il sociologo italiano Patrizio Paolinelli.
Più esprimevamo il bisogno di sognare qualcosa di differente più ne rimanevamo imprigionati. Imprigionati da un’industria culturale, da un marketing costruito a tavolino, mode, desideri, personaggi. Aggiunge Paolinelli che “in nome del fatturato tutti i tabù sono caduti, l’intimità è estinta e il privato è quanto di più pubblico ci sia”.
Industrie creative, battaglia sui contenuti, guerre culturali mondiali, cultura di massa globalizzata, modello americano dell’intrattenimento, diversità culturale, valori da promuovere, geopolitica della cultura e dell’informazione. Con il termine “mainstream”, letteralmente “dominante”, possiamo indicare una corrente dominante, un grande pubblico, una cultura popolare. Il termine può avere anche un’accezione positiva e significare “cultura per tutti”, o una negativa e significare “cultura dominante”, oppure cultura uniformata.
“La cultura di massa non solo non è innocente, ma per il suo tramite, la posta in gioco, è oggi nientemeno che l’indipendenza di una Nazione o di un continente”, afferma Paolinelli. Insomma la cultura di massa è un’attività economica di prima grandezza e rappresenta un’intensa forma di attività politica. Ad oggi non esiste un’economia politica che non tragga beneficio dal modello consumistico di vivere e che non abbia costituito un potente vettore per il controllo della coscienza collettiva a livello globale. In cosa consiste questo “controllo della coscienza collettiva” se non in una censura!
Ma che cosa è la censura?
Apparentemente è facile rispondere: censurare significa proibire. Tuttavia la censura costituisce un processo molto più complicato del semplice dire no, occorre quindi pensare ad un concetto esteso di censura: censura è ogni forma di vita sociale sulla quale si può esercitare un controllo, da posizioni di forza. Salta subito in mente la stretta sorveglianza cui è attualmente oggetto la comunicazione, in particolare quella televisiva, e quella che si vorrebbe applicata in misura maggiore alla rete.
Oggi in Europa occidentale nessuno è costretto più all’esilio per le proprie idee, come invece capitò all’illuminista Julien Offray de La Mettrie, ma la censura esiste ancora. Anche sotto forma di autocensura e tramite la produzione di una massa enorme di pseudo-informazioni che con il loro “rumore” impediscono di distinguere il vero dal falso. In moltissimi Paesi, storicamente, il rapporto tra politica, letteratura e informazione è sempre stato strettissimo. Sono esistiti fin dai tempi più antichi appositi organi, gestiti dall’alto, che si occupavano di scrivere, trasmettere e talvolta “revisionare” accuratamente i fatti secondo criteri precisi che cambiavano con il susseguirsi delle epoche.
L’illuminismo prima e le rivoluzioni ottocentesche poi, hanno rotto questo rapporto e permesso un avanzamento culturale non indifferente. Il novecento è stato segnato dal controllo frenetico dell’informazione, in questo secolo il detto “la storia la scrivono i vincitori” è largamente calzante: la nascita dei nazionalismi, delle dittature democratiche e delle agenzie per il controllo dell’opinione pubblica hanno dimostrato quanto l’ordine costituito sia fragile e non sia in grado di aderire in toto a modelli ideali di Stato.
Nel suo “La libertà di stampa. Commento al Licensing Act del 1662” il filosofo britannico John Locke sosteneva che “il privilegio comporta un regime di censura preventiva che dipende, di fatto, dall’arbitrio del potere politico. La censura preventiva rende la libertà di parola ineffettiva”. Il privilegio cui si riferisce è quello di chi pretende di detenere la proprietà culturale dell’informazione, in un senso più astratto, si riferisce alla cultura come proprietà esclusiva della Nazione che l’ha creata. Ciò suggerisce un’attenta riflessione sui nostri tempi, a tratti contemporanea, che occorrerebbe tenere in mente quando si parla, spesso con troppo superficialità, di regolamentare il web, limitare la libertà di stampa, ecc.
Secondo l’economista statunitense Tyler Cowen “la globalizzazione ha creato molta dell’arte e della cultura che oggi consideriamo indigena. In Giamaica, per esempio, il reggae ha attinto a piene mani dal rhythm and blues che attraversava l’etere delle stazioni radio da New Orleans a Miami”.
Ma allora la cultura globale si diffonde in modo uniforme ma provoca risposte differenti, oppure, se pensiamo di vivere in un mondo globalizzato ci comportiamo come se lo fosse realmente?
Sin dalla sua primissima teorizzazione (anni ’80), della globalizzazione non si è ritenuto importante studiare gli effetti che avrebbe prodotto sulla popolazione mondiale, ma ci si è limitati ad applicarla in quanto ineluttabile e, nei peggiori dei casi, sommarla al capitalismo; in questo caso abbiamo assistito ad economie nazionali che sono state costrette a cedere quote del loro mercato. In altri casi ha trasformato indelebilmente le strutture esistenti all’interno dei Paesi stessi.
Per il sociologo inglese Luke Martell “un fenomeno è globale quando presenta tre caratteristiche: regolarità, continuità nel tempo, interdipendenza”. È chiaro a questo punto che la globalizzazione sommata al capitalismo sia riservata a pochi privilegiati i quali nell’essere privilegiati sono essi stessi ostacolo al modello ideale di globalizzazione, largamente inteso (dal 2000, anche grazie all’ONU) come integrazione tra popoli. Le Nazione ricche si aprono al commercio mondiale solo quando possono trarne vantaggio per le proprie industrie, mentre lo ostacolano quando non riescono a trarne benefici.
Il 60% della popolazione mondiale vive con un reddito che oscilla tra uno e due dollari al giorno, il che per molti significa la fame. Della popolazione del sud del pianeta solo il 40% ha accesso a fonti sicure di acqua potabile, il restante sessanta “vive la giornata”. Nonostante la globalizzazione abbia portato giovamento ai Paesi più ricchi, per questi non sussistono motivi importanti per cui intervenire ad “integrare” l’altra parte del Mondo.
E tutto questo discorso, mainstream, globalizzazione, censura, cultura, informazione e politica come si traduce nel nostro Paese?
In Italia, figlia prediletta degli USA, sono stati sapientemente assorbiti e messi in atto questi principi di stampo neoliberista grazie anche all’arrivo agli inizi degli anni novanta in politica del magnate delle televisioni Silvio Berlusconi. Tutto è divenuto utile al fine del marketing, si è iniziato a vendere un programma politico come se fosse un detersivo, si è studiato come trasformare la politica in un grande show televisivo, pieno di comparse, attori, presentatori, ballerine, scenografie e luci colorate; cosa ancor peggiore si è iniziato a sostituire alla cultura italiana, una non cultura televisiva, fatta di termini, scritture ed immagini colorate ed abbaglianti. L’affermazione della società dei consumi, l’onnipotenza omologante della televisione commerciale, un’informazione gravemente malata e la progressiva demolizione della scuola pubblica hanno talmente svuotato gli italiani della loro cultura e della loro storia che il futuro potrebbe riservarci brutte sorprese.
In un Paese dove è nata prima la cultura e poi la Nazione, è questa dimensione post-moderna della politica e della cultura che viene privilegiata: una dimensione che, come noto, facilita la frammentazione e la superficialità al posto delle sicurezze identitarie scaturite dalle grandi narrazioni.
Nel 2009 la spesa per la ricerca e lo sviluppo sostenuta da imprese, istituzioni pubbliche, istituzioni non profit ed università risulta pari complessivamente a 19.2 miliardi di euro. L’incidenza percentuale della spesa per R&S sul PIL risulta pari all’1,26%, un dato che risulta essere il più basso della zona euro se si considera che altri Paesi hanno deciso di affrontare la crisi economica investendo e ricapitalizzando i fondi per R&S. La nostra Costituzione recita all’articolo 9 “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Occorre quindi promuovere il rilancio di quella “cultura” intesa come volando dello sviluppo economico “l’economia della cultura” che in altri Paesi europei si sta dimostrando un segno di maturità civile, una strategia vincente nelle scelte politiche e un mezzo concreto per uscire dalla crisi economica che ci attanaglia.
Tutto passa dalla Rete, che per sua natura è imprevedibile, ma che allo stesso tempo, attraverso un’educazione all’uso responsabile della rete (ad esempio insegnando fin dall’età scolare a saper discernere all’interno dell’overload di notizie quali siano quelle che meritano di costituire l’informazione – spirito critico differente con cui si affaccia alla rete), porterebbe ad una cultura orizzontale, aperta, libera e accessibile a tutti senza distinzioni (ovvio che questo concetto va contro ogni Legge che voglia imbavagliare o regolamentare la cultura che sia varata da un paese democratico come l’Italia o gli States, oppure una dittatura come l’Iran e la Siria). Detto questo il vero punto di svolta sarebbe quello di definire una volta per tutte cos’è la Rete, cancellando quello che si è pensato fino ad oggi potrebbe rivelarsi davanti a noi la sua potenzialità effettiva e le caratteristiche da valorizzare. Purtroppo in un mondo in cui Internet è nato per scopi bellici vedo difficile questa possibilità in un breve futuro. L’Italia può fare tanto sulla sua cultura, possedendo oltre il 50% del patrimonio storico-artistico mondiale, dovrebbe investire nella sua valorizzazione e proteggere la propria ricchezza in funzione e su di esso: basta tagliare sull’istruzione, lo spettacolo, i siti archeologici o il diritto allo studio, occorre che nel nostro Paese l’investimento su queste ricchezze, perché tali sono, non sia più considerato la “spesa di bilancio” ma al contrario “l’entrata”.
Foto di Federico Cropani ©
2 Comments
chicca
10/11/2013 at 16:41…non fa una piega!
Federico Sollazzo
23/12/2015 at 14:40(Confidando possa interessare)
Il pop è morto, viva il pop!
http://www.lachiavedisophia.com/blog/il-pop-e-morto-viva-il-pop/