Strano questo periodo, dagli anni zero ad oggi la Retromania teorizzata da Simon Reynolds sembra aver preso piede più di quanto potessimo immaginare; tutto è troppo uguale al richiamo precedente ed enormemente diverso da quello successivo; pochi i punti di riferimento in un mondo governato dalla condivisione selvaggia, dove sapere tutto di tutti in qualsiasi momento ha il sapore anestetico di non conoscere più nulla, per sempre.
Il dilagare di una memoria bulimica, continua e quantizzata in archivi saturi di file, raccolte di suoni che non ascoltiamo, immagini che non abbiamo mai visto… La sicurezza di poter usufruire in qualsiasi momento di tutto ciò che risulterà superfluo. L’ attuazione di quell’ anarchia di pensiero che avevamo da sempre auspicato e che oggi, in queste forme, appare ai nostri occhi futile ed inconcludente.
Marzo 1998, Roma. Con il consueto passo veloce percorro le vie del quartiere San Lorenzo, la sera precedente avevo assistito ad un deludente concerto dei C.S.I., ultimi scampoli di quel movimento alternative italiano che così tanto aveva contribuito a formare parte di una generazione nei primi anni novanta.
Giovanni Lindo Ferretti declamava le sue litanie sul palco, insospettabile cantante di una rock’n’roll band, con una fascia a coprire gli occhi, probabilmente “per la vergogna di mostrarsi come nudo”. La storia del Consorzio era praticamente al capolinea e chiudersi in se stesso non servirà al buon Giovanni a far quadrare quei conti che dovevano necessariamente essere risolti, quelle questioni private che l’inaspettato successo di pubblico aveva probabilmente contribuito a deteriorare. Da lì a poco il governo di centrosinistra presieduto da D’Alema darà il via al bombardamento italiano del kosovo… Era Passato veloce un altro decennio ed era già nuovamente un altro mondo, ancora tutto da interpretare.
Quella mattina, a Via Degli Etruschi, ero in cerca del disco degli Ulan Bator, il gruppo che aveva aperto con un sound fenomenale il concerto dei C.S.I. nella quasi totale indifferenza del pubblico. Gli Ulan Bator (Amaury Cambuzat, Olivier Manchion, Matteo Dainese) sono un gruppo francese, prodotto in Italia dal Consorzio Produttori Indipendenti che ne pubblica, tra i loro benemeriti Taccuini, l’acerbo e interessante Polaire (1997) e i successivi album, Vegétalé (1998) ed Ego:Echo (2000). Il suono del gruppo, caratterizzato da quelle atmosfere strumentali prese in prestito dai movimenti musicali indipendenti d’oltreoceano (Slint e Swans su tutti), risulta compatto e originale, immune a quella retorica post rock che diverrà invece marchio di fabbrica di molte band e di tante produzioni musicali negli anni successivi.
Il suono prodotto dagli Ulan Bator ha radici profonde nei Sonic Youth (chi può farne a meno!), miscelando tuttavia sapientemente le chitarre soniche ad un andamento krautrock, sfumature psichedeliche e progressive che danno ai loro lavori un sapore inedito, visionario, con un mood tanto sperimentale quanto trascinante.
Ego:Echo, pubblicato nel 2000, prodotto da Michael Gira, è la vera evoluzione del gruppo, che in questo lavoro più che nei precedenti, sotto un evidente stato di grazia, mette a fuoco con rara precisione un sound pulito, secco, inconsueto ed altamente efficace, che si ripercuoterà in alcuni live set indimenticabili per potenza e trasporto. Negli anni successivi si assisterà al rimaneggiamento dei componenti e ad una svolta alt-pop di difficile comprensione… eventi dai quali il gruppo si riprenderà molto più tardi perdendo tuttavia per strada tanta di quella propulsione creativa che li aveva caratterizzati nei primi lavori.
Gli Ulan Bator sono uno di quei gruppi che inspiegabilmente sono stati all’epoca poco considerati, e che invece andrebbero rivalutati, per riscoprire e stupirsi oggi di una tra le più interessanti intuizioni musicali di quegli anni; fautori di un ramo di quel post rock continentale poco frequentato che avrebbe potuto immettere linfa vitale ad un genere che, negli anni a seguire, verrà consumato poco a poco dalla propria stessa attitudine dirompente.