In seguito alla fine della centralità operaia degli anni settanta, il mondo del lavoro ha perduto il suo ruolo all’interno del dibattito pubblico. Investito negli ultimi quarant’anni da un susseguirsi di iniziative liberali, è diventato una componente indifferenziata della forza produttiva, smarrendo non solo il suo ruolo nella definizione dell’identità sociale della persona, ma anche la sua funzione fondante della cittadinanza democratica.
Il lavoro è stato retrocesso a semplice funzione di accumulatore di potere d’acquisto, finalizzata a realizzare l’individuo nella dimensione del consumo.
Ridare dignità al lavoro ed ai lavoratori diventa così l’unica via per realizzare una democrazia sostanziale, intesa come patto di cittadinanza, in grado di assicurare a ogni lavoratore pieni diritti economici, sociali e politici, garantendo un’effettiva mobilità sociale alle future generazioni.
Il nostro è un Paese che regge la sua economia sulla piccola e media impresa, ove trova occupazione circa il 70% dei lavoratori totali. Il processo di terziarizzazione dell’occupazione e le ristrutturazioni connesse alla crisi dei primi anni ottanta, hanno visto ridurre notevolmente il peso del settore industriale; trasformazioni legate ai forti cambiamenti dei mercati, delle tecnologie, dei modelli organizzativi, hanno ricollocato le aziende sul settore dei servizi.
Oggi risulta occupato nei servizi oltre il 60% dei lavoratori.
Il lavoro dipendente risulta ancora essere la forma di lavoro più diffusa seppur alcuni settori, come quello dell’agricoltura e delle costruzioni, abbiano mostrato un aumento più che notevole del lavoro indipendente, spesso influenzato dal ricorso alla subfornitura, a causa delle trasformazioni strutturali in direzione della cosiddetta impresa a rete.
Si tratta, comunque, di processi in corso, in continua evoluzione, che mostrano scarti, passi avanti e indietro, notevoli differenziazioni settoriali, locali, per dimensione d’impresa.
Il dibattito sul mondo del lavoro oggi ruota intorno alla questione della flessibilità, della regolazione di entrate ed uscite dal mondo del lavoro, dei contratti atipici e delle necessarie revisioni del sistema di welfare.
La crisi economica internazionale ha colpito direttamente quest’ultimo settore, ma va sottolineato che le risposte alla crisi sono state diverse in ciascun Paese – e quindi in diversi mercati del lavoro – ed una quantificazione degli effetti non può considerarsi oggi definitiva, perché gli effetti continuano a ripercuotersi nel tempo.
Nella zona euro si è registrato un calo dell’occupazione pari al 2,7 per cento, al contrario degli Stati Uniti dove si è arrivati al 5,5 per cento.
Molti Paesi dell’area euro hanno reagito a questa situazione tramite il labour hoarding, cioè il mantenimento della forza lavoro in azienda attraverso il ricorso a forme di sostegno al reddito, in modo da abbassare il numero delle ore lavorate senza però interrompere il rapporto di lavoro. Da una parte, si è così consentito di mantenere vivo il rapporto tra i lavoratori e l’azienda; dall’altra, l’esigenza di recuperare produttività da parte delle imprese ha allungato i tempi della domanda di lavoro.
L’Italia è uno di quei Paesi in cui si è fatto più ampio ricorso a strumenti di sostegno del reddito, come la cassa integrazione, per evitare, o quantomeno ritardare, il passaggio dallo status di persone occupate a quello di disoccupati, nei settori maggiormente coinvolti dagli effetti della crisi.
Da dove iniziare, se tutto il Paese è in forte recessione economica da almeno dieci anni?
Il Legislatore impreparato ad intervenire, ha sempre preferito lasciare che i mercati si risollevassero da soli, dedicando il suo tempo ai colossi imprenditoriali italiani che nel tempo ha sovvenzionato, trascurando completamente le piccole e medie imprese, cuore pulsante del lavoro italiano.
Foto di Enrico Paravani ©