Il precariato, a distanza di undici anni, non è più un errore facilmente superabile, ma una vera e propria malattia cronica di cui il mercato del lavoro è saturo e non può fare a meno; la stessa Pubblica Amministrazione è piena di questo tipo di contratti. Oggi potremmo, senza commettere errori, parlare del precariato come di una classe sociale (precario), di un modus vivendi (vita precaria) o addirittura di una forma organizzativa da studiare (precarizzazione), questo perché il mondo del lavoro, come è sempre stato, condiziona il fare economia delle aziende e il benessere delle persone che vi lavorano; se pensiamo ad un precario, pensiamo ad un addetto di call center, in affitto, che fa il pendolare, con una compagna, senza figli, che non può accedere a finanziamenti bancari, che lavora con contratto a sei mesi, a basso costo, per un azienda che molto probabilmente un giorno interromperà l’attività lavorativa per delocalizzarsi in Bangladesh o Ungheria dove il costo del lavoro è tendente allo zero.
La precarizzazione del mercato del lavoro è duale, da una parte i lavoratori che sono costretti a prestazioni diversificate tra loro e non continuative nel tempo e dall’altra le imprese che sono incentivate ad usufruire di questi contratti perché gli permettono di ottenere da uno sforzo economico minimo un massimo rendimento; in più c’è da considerare che in un Paese come l’Italia, che investe poco e male nella formazione e che continua a puntare su settori a basso contenuto tecnologico e labour intensive, diminuisce notevolmente la capacità di attrarre investimenti esteri.
Precarietà e basse retribuzioni non garantiscono l’autosufficienza, con il risultato che anche durante le prime esperienze di lavoro è necessario appoggiarsi alla famiglia d’origine: un regime di welfare familistico caratterizza il modello sociale italiano da anni.
L’idea che il diritto a un lavoro stabile e dignitoso sia una risorsa disponibile in quantità data e che il problema sia solo quello di distribuirlo fra i cittadini non sembra giustificata né sul piano logico né su quello fattuale. La storia insegna che i diritti tendono a crescere in modo solidale e che essi traggono forza dalla loro indivisibilità e dal fatto di essere applicati in modo quanto più possibile esteso e uniforme.
Il centro della scena è stato abusivamente occupato da una discussione sulle tutele dei “garantiti”, mentre il vero problema dovrebbe essere la crescente precarietà di chi sta fuori dal sistema di protezione sociale; ulteriori riforme che fanno della flessibilità un dogma rischiano di causare enormi danni al tessuto sociale senza fornire effetti apprezzabili sul livello di occupazione. In un Paese che dopo la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori si interroga se abolirlo o meno, sarà più facile dire che la compensazione monetaria va ridotta, e così si ritroverà con delle condizioni lavorative al ribasso da fare gola a una certa globalizzazione colonialista e vorace.
I diritti e le salvaguardie sul lavoro non sono una risorsa finita che deve essere ridistribuita tra chi ne ha di più e chi non ne ha mai avuti: non serve dire che in questo modo si otterranno maggiori posti di lavoro se non si corrispondono interventi a sostegno della crescita e della flex security. I contratti atipici sono stati moltiplicati senza necessità e utilizzati per scopi impropri o per godere di sconti contributivi da parte delle aziende. Risulta evidente come gli utilizzi fraudolenti legati ai contratti di lavoro in ingresso debbano essere contrastati. Ciò non può che contemplare una ristrutturazione dei contributi che abbassi quelli associati al lavoro dipendente in senso proprio e alzi gli altri, senza escludere l’opportunità di utilizzare la fiscalità generale per far quadrare i conti. Questo non significa penalizzare le partite IVA e le micro-imprese che costituiscono una componente centrale della struttura produttiva italiana ma, al contrario, è un modo per restituire anche al lavoro autonomo valore e dignità dopo un decennio in cui i modelli di sub-fornitura hanno trasformato il contributo del piccolo imprenditore in una variabile dipendente della lunga catena del valore dominata dalle grandi imprese.
Foto di Enrico Paravani ©
2 Comments
Emanuele
31/10/2013 at 17:23Federico, perchè parli del precariato dicendo “a distanza di undici anni”. Il precariato nasce alcuni anni prima con i co.co.co. Questi contratti me li ricordo bene quando iniziai a lavorare nel 2000. La vita dei giovani si trovava davanti ad un bivio e se la strada era il co.co.co. erano fregati.
Federico Cropani
31/10/2013 at 17:40il “sistema precariato” è entrato a pieno regime, con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti, con la Legge 30 del 14 febbraio 2003 “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro” attuata con D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276 – entrato in vigore il 24 ottobre 2003 – che immeritatamente il Governo Berlusconi II impose il nome di Marco Biagi. Ergo sono 10 anni dall’entrate in vigore della Legge più un anno dalla fine del 2001 quando è stata avviata la discussione sullo “Statuto dei lavoratori”. Ma la data non è importante, sono i contenuti, causa-effetto, che viviamo e sui è bene aprire una discussione.