Non avevo mai imbracciato un’arma: una cosa normale per uno studente diciannovenne, germogliato tra le righe d’inchiostro dei testi di Medicina.
Oggi, al riparo di ciò che è stato l’angolo di una cucina, poche piastrelle miracolosamente aggrappate a un brandello di muro, mi guardo il petto, ricamato dai lividi che ci lascia il mio spigoloso compagno.
Un fucile mitragliatore è un essere ossuto, affamato d’odio.
Non mi lascia mai. Neanche in questa notte fredda e gelata, che nessun fuoco potrebbe scaldare senza attirare gli uomini in divisa.
Nei chilometri percorsi insieme ho lasciato indietro l’adolescenza, dimenticati quegli sguardi sereni che bevono il mondo come fosse acqua limpida.
E’ una delle prime cose che perdi, in guerra, la libertà di lasciar correre lo sguardo.
Gli occhi ritornano quelli di un animale selvatico, impegnati a scrutare ogni dettaglio che annunci il nemico, il colpo che ti spegnerà, la rabbia e la paura dell’imboscata.
Insorti, ci chiamano.
“Dio è grande. Allah u’aqbar.”
Si ripete senza sosta la nenia sgraziata del muezzin dal minareto: chiama uno ad uno i nostri compagni dalle lunghe barbe, arrivati da ogni parte del mondo a prendersi una guerra che non li riguarda se non per una fede in cui molti di noi non credono.
Il legno e l’acciaio di un AK47, le corse tra mattoni rotti e calcinacci, il fiato lungo della paura ed una vittoria ad ogni fuga che in fondo trova la salvezza.
E’ mia la polvere che portano sugli scarponi gli uomini in divisa, mia l’aria stuprata dal rombo e dal denso fumo nero dei tank, mio il villaggio scavato e battuto dai cingoli.
E sarà il mio RPG che sputerà rame fuso sulle griglie di aerazione del vostro pachiderma, che vomita acciaio assordante sulle nostre case. Mio lo sguardo ebbro d’odio, fisso a divorare la fiamma bianca che zampillerà dal suo cranio scalpato mentre l’acre odore di zolfo annuncerà al villaggio la sconfitta del gigante.
Mio il sangue misto alla polvere, densa pozzanghera senza riflesso, in questa distesa di macerie spezzate, così simile ad un cimitero di lapidi senza nome.
Ci chiamano insorti: siamo ribelli o meglio partigiani.
Foto di Fulvio Floccari©
1 Comment
enrico
25/04/2014 at 12:46condivido molto volentieri, per quanto mi riguarda i nemici sono quelli sconfitti in quel 25 aprile.