È ufficiale: il parlamento iracheno ha votato una mozione che chiede ai militari statunitensi di lasciare il suolo iracheno, mentre il Primo Ministro Iracheno dichiara adirato che il Generale Soleimani era suo ospite quando lo strike statunitense lo ha assassinato.
Il controllo statunitense sull’area appare oggi talmente inconsistente, nonostante il trilione di dollari speso in 17 anni di occupazione e crimini di guerra, che il Premier iracheno, al governo del Paese con la benedizione statunitense, ammette un incontro con quel Generale Soleimani che è il Comandante della “Brigata Santa”, il perno centrale della campagna militare contro l’ISIS e della presenza iraniana in Siria.
La posizione di influenza iraniana in Medio Oriente è cresciuta grandemente negli anni, erodendo terreno sotto i piedi al gigante a stelle e strisce ad ogni errore strategico compiuto da quest’ultimo. Siria, Libano, Yemen del Nord ed oggi Iraq guardano all’Iran come al primo attore politico del subcontinente mediorientale.
Per dirla con Craxi, l’Iraq sembra avere la moglie USA e l’amante iraniana, ma mentre il primo dei due rapporti è sempre più prossimo al divorzio, il secondo si rivela solido ed intrigante, cambiando completamente lo scenario che i generali statunitensi sono chiamati a gestire. La presenza di truppe americane in Iraq si è progressivamente assottigliata negli anni , tanto da aver reso l’esercito iracheno nuovamente padrone della piazza e gli statunitensi privi della forza fisica necessaria a controllare il Paese. Prendere l’Iraq con la forza, alla vigilia di una guerra contro l’Iran, sembra quindi davvero una ipotesi fantascientifica.
Una pessima notizia per Trump o piuttosto il contrario?
Trump sembra progettasse da giorni una provocazione contro l’Iran, come testimoniato dal ponte aereo che gli USA hanno attivato già da settimane per potenziare l’apparato militare dislocato in Iraq, ben prima di uccidere il Generale iraniano. Quanto accade in queste ore era stato quantomeno ipotizzato.
Una escalation militare fortemente ideologizzata con buona probabilità ripagherebbe il miliardario americano in campagna elettorale per le nuove elezioni presidenziali. L’occasione è propizia, quindi, ma le truppe americane in Iraq sono un bersaglio facile e Trump non può sbagliare ancora una volta la propria mossa, dopo la figuraccia rimediata dagli USA in Siria, resa oggi una provincia della Federazione Russa, ed in Libia, catapultata nella sfera di inferenza del premier turco Erdogan e miccia di una possibile escalation nel Mediterraneo tra Grecia, Egitto, Libia e Turchia.
Lo scontro frontale corpo a corpo con l’esercito iraniano non può rappresentare pertanto una scelta appetibile: ci sarebbero molte vittime tra i soldati americani e una condizione logorante che nella migliore delle ipotesi renderebbe necessario militarizzare il Paese degli Ayatollah per mantenerne il controllo, una opzione che Iraq ed Afghanistan hanno fatto ben comprendere quanto sia onerosa e poco promettente nei risultati.
E allora?
La scelta più conveniente per gli USA sarebbe quindi una guerra a distanza, condotta prevalentemente a base di missili Tomahawk e strike aerei, redditizia per l’industria bellica e poco impegnativa sul piano dello spargimento di sangue statunitense. Una grande campagna elettorale per il falco dai capelli improbabili, a patto di ridurre grandemente la presenza statunitense in Iraq ed i possibili bersagli delle contromosse iraniane. Quella del Parlamento Iracheno potrebbe paradossalmente suonare come una insperata cortesia allo stesso Trump.
Resta il fatto che da oggi le truppe USA sono a tutti gli effetti un esercito di occupazione, presente in Iraq contro la volontà del Paese e quindi in violazione del diritto internazionale. Le sanzioni economiche ipotizzate da Trump rendono solo più evidente il sopruso operato da Washington contro Baghdad.
Le incognite
La prima incognita in tutto lo scenario è la presenza, tra gli arsenali iraniani, di ordigni nucleari. Il rischio che uno di tali ordigni sia utilizzato contro Israele non è altissimo, in quanto legittimerebbe altri Paesi a farne uso e perchè il Paese sionista ha più volte dimostrato di saper ben difendersi dagli attacchi missilistici. Solo un attacco massivo, con ordigni convenzionali e non, saprebbe mettere in seria difficoltà le difese israeliane ma esaurirebbe rapidamente gli arsenali militari iraniani, lasciando gli ayatollah preda delle repliche Israelo-americane. Questo scenario è il più pericoloso per la non remota possibilità di scatenare contromosse nucleari israeliane, per quanto “tattiche” esse possano essere.
La seconda incognita è lo stesso Putin. E’ improbabile che il gigante russo lasci fare liberamente gli USA, che con una guerra tecnologica acquisirebbero un vantaggio troppo grande sul tavolo del Risiko mediorientale che si va componendo. Putin semplicemente non potrebbe lasciar correre.
Un ingresso militare diretto della Russia in questa vicenda, sul modello siriano, a cavallo tra la posizione del peace keeper e quella dell’alleato dell’Iran, appare anch’esso di difficile attuazione, non disponendo i russi in Iraq degli stessi assetti che hanno utilizzato in Siria e di cui disponevano precedentemente alla crisi siriana, seppur darebbe smalto alla figura di fine stratega di Putin e potrebbe rivelarsi l’ennesimo scacco alle politiche internazionali statunitensi.
Una terza ipotesi è quella libica: Putin potrebbe non opporre troppa resistenza in Iran, ricevendo in cambio una qualche “accondiscendenza” statunitense dinanzi ad un interessamento russo alle sorti della terra che fu di Gheddafi e contando sulla capacità iraniana di fare fronte all’aggressione a stelle e strisce con le sole forze proprie. In questo caso la Russia finirebbe col proporsi come baricentro di una reazione anti-USA capace di coagulare le energie di Siria, Iraq, Iran, Egitto e che riporterebbe indietro di decenni l’ultima fase della Guerra Fredda che ha visto espandersi l’area di influenza statunitense sino alle porte della Federazione Russa.
La posizione italiana
Quest’ultimo punto è il più complesso: da una parte i Cinque Stelle si sono presentati alle urne proponendo l’uscita del Bel Paese dall’alleanza NATO ed oggi, dimentichi del programma elettorale, si trovano addirittura a subire passivamente l’uso di basi italiane come base di partenza per la pianificazione di veri crimini di guerra (non dichiarata). D’altra parte la presenza di truppe italiane in Iraq è sempre più scomoda e pericolosa, ancor più nell’ipotesi che gli USA diano ascolto alla richiesta irachena di togliere il disturbo. I risultati di questa disavventura militare sono amaramente chiari a tutti: un Paese non pacificato, ad un costo economico e di vite umane esosissimo a fronte di qualche spicciolo rientro economico simil-coloniale per ENI e per la Trevi SpA (che si è aggiudicata la riparazione della diga di Mosul).
Nel silenzio oramai proverbiale di un Ministro degli Esteri-Capo politico del Movimento, chiamato a gestire vicende evidentemente troppo più grandi di lui, una escalation iraniana potrebbe costare ai Cinque Stelle la definitiva scomparsa dalla scena politica italiana ed agli italiani una ulteriore dose di disillusione e disamoramento dalla politica.
In vicende di tale complessità non si può scegliere il ruolo di comparse troppo concentrate sulla resa fotogenica della propria immagine: occorre avere il coraggio di decidere, magari mantenendo la parola data agli elettori e chiamandosi fuori da una pagina nera della Storia contemporanea.